Il Grande sacrificio, largo sei metri e alto due, esposto nella Sacrestia del Bramante di Santa Maria delle Grazie, è il più grande dipinto non solo di questa serie ma di tutta la produzione di Lorenzo Puglisi. Un muro nero da cui emerge una sequenza ritmica e fluttuante di segni bianchi in cui riconosciamo immediatamente l’eco delle teste e delle mani di Cristo e degli Apostoli dell’Ultima cena di Leonardo, il cui fantasma resiste aggrappato a un muro a poche decine di metri da lì.
Puglisi ha dedicato al capolavoro vinciano diverse opere, ognuna leggermente diversa dall’altra come una serie di variazioni barocche su una linea di basso. È una prassi sistematica del suo lavoro: le sue tele si fondano su Caravaggio soprattutto, Velázquez e Goya (i due autori alla base della Crocifisso e del Cristo nell’Orto degli Ulivi in mostra con il Grande sacrificio), Correggio, Rubens e Rembrandt… È la grande pittura.
Non bisogna fermarsi all’elemento storico dei lavori di Puglisi. Non si tratta di una ripresa di un’iconografia antica secondo dinamiche citazioniste, come in un gioco postmoderno. Da questo punto di vista non esiste forse immagine tanto sfruttata quanto l’Ultima cena leonardesca, insieme alla Pietà vaticana di Michelangelo. Restando al di fuori dell’ambito delle arti visive, la cinematografia ne trabocca – da Viridiana di Buñuel a M.A.S.H. di Altman a Vizio di forma di Anderson – senza contare lo sfruttamento in ambito pubblicitario o, a un livello infimo, il merchandising (categoria alla quale tutto sommato appartengono i romanzi di Dan Brown e i loro derivati). L’innovativa iconografia sacra elaborata da Leonardo, così attenta a scrutare la verità umanamente sconvolgente del fatto sacro, è divenuta un’icona pop: depauperata anzi spolpata, ridotta a trito ammiccamento, impiegata per lo più au contraire. Un effetto avviato dall’incalcolabile moltiplicazione delle stampe popolari e oleografie a scopo devozionale: l’aveva capito perfettamente Andy Warhol, che nella sua reiterazione aveva cercato di recuperarne almeno per accumulo la forza originaria. La replicazione attuale del modello del Cenacolo vinciano anche nell’ambito della pittura destinata ai luoghi di culto o di ispirazione sacra implica nella maggior parte dei casi la riproduzione delle stesse dinamiche, ossia lo sfruttamento della notorietà dell’immagine senza ripensarne le motivazioni profonde; rivela inoltre l’assenza di una sorveglianza sull’impiego di una fonte sì autorevole ma ampiamente metabolizzata dalla cultura visiva secolarizzata; dimostra infine la carenza di fantasia e di capacità di elaborazione di un discorso iconografico adeguato alla contemporaneità, nell’illusione che sia sufficiente riverniciare o dare una patina di cronaca all’immaginario prodotto nel passato. Un’idea piuttosto equivoca di tradizione.
In questo discorso Puglisi si colloca con decisione a latere, perché si appoggia sì alla fama delle opere ma per sviluppare un discorso nuovo, capace anche di riportare una giusta e nuova attenzione sull’originale. Se Puglisi non muovesse da un’immagine consolidata nella memoria collettiva, difficilmente riusciremmo a seguirlo allo stesso modo. Di Leonardo Puglisi è come se rielaborasse non il Cenacolo ma il suo riverbero. Ogni ricordo in quanto tale è sottoposto a processi di ricostruzione, di alterazione (i suoi lavori presentano differenze rispetto ai modelli a partire dalla posizione, dal numero, dalla morfologia degli elementi), di mediazione operata dal tempo, di sedimentazione dell’esperienza dell’istante. È solo come ricordo che un’esperienza riesce a diventare elemento costitutivo: di una persona come di una comunità. Un ricordo non è mai completo di ogni particolare e del teatro generale dell’evento. Conserva solo gli elementi ritenuti essenziali, facendo della capacità di dimenticare una virtù selettiva, esattamente come si sfronda un albero perché dia più frutto o perché sia più resistente.
Puglisi lavora per una completa rimozione del dettaglio. Da una parte con un nero che satura lo spazio, elimina qualsiasi contesto possibile e rende illecito ogni particolare: in un certo senso scarnifica il discorso di qualsiasi aggettivo, di inciso e di struttura complementare, per ridurlo alla proposizione base, soggetto-verbo. Dall’altra opera una ulteriore scarnificazione degli elementi sopravvissuti, tracciati con colpi e velature di colore bianco solo screziati di rosso o giallo: le teste e gli altri elementi che noi riconosciamo come parti anatomiche sono in realtà gesti pittorici compendiari che non “dettagliano” nulla o quasi di un volto o di un arto.
Michelangelo stimava poco la pittura fiamminga a causa della preponderanza del dettaglio tipico della pittura devota. Per lui, secondo quanto gli fa pronunciare Francisco de Hollanda nei Dialoghi romani, la pittura fiamminga è fatta «per ingannare gli occhi», cosparsa «di stracci, muraglie, verdi campi, macchie d’alberi, fiumi e ponti, che chiamano paesaggi, con molte figure qua e là», e «ha fascino sulle donne, specialmente su quelle molto anziane e molto giovani, così sui monaci e sulle monache, e sui quei nobiluomini che non conoscono il senso della vera armonia». Se la misura classica della pittura italiana non farà versare al devoto neppure una lacrima, la “quotidianità” della pittura fiamminga ne farà versare molte. Michelangelo sottolinea il rischio dell’inganno spirituale – e per questo di gran lungo più pernicioso di uno intellettuale – di un’arte che si compiace della propria capacità illusoria, che confonde sentimento e sentimentale, verità e apparenza, mistica e autocompiacimento.
Il lavoro di Puglisi non è un semplice omaggio o un d’après, anche perché non c’è nessun tentativo imitativo. Ogni discorso su Leonardo o Caravaggio che ne riprenda gli assunti o ne tenti un parallelo riduttivamente iconografico o stilistico, è velleitario o grottesco: lo dimostra la tanta pittura di maniera che imperversa, anche e forse soprattutto in ambito sacro, pittura che nel fermarsi alla superficie, per quanto imbellettata di “contemporaneità”, finisce per essere una simulazione, una performance meccanica non esente da esibizionismo, priva dell’intima necessità di un atto d’amore spiritualmente fecondante.
L’operazione di riduzione radicale di Puglisi è di per sé un processo di sintesi che non rivela la struttura formale o volumetrica dell’immagine ma la riconduce al dettaglio come essenza nucleare. L’eliminazione di ogni particolare fino a salvarne uno è soltanto in apparenza un paradosso, perché è un processo di cernita tra cosa è accidente e cosa no. Puglisi, in sostanza, “ritaglia” dal totale i soli elementi a suo avviso davvero portanti dell’immagine e che ne costituiscono il nocciolo semantico.
Anche Leonardo e Caravaggio operano allo stesso modo. Si concentrano sugli elementi espressivi di una verità interiore che costituiscono il fuoco del senso e vi portano anche quello strutturale del dipinto, indipendentemente che esso coincida o meno con quello geometrico. Sono punti che polarizzano l’immagine in modo che tutto graviti su di loro: una volta individuati è impossibile sfuggirne, il resto del quadro – per quanto sontuoso – è semplicemente periferia. Leonardo e Caravaggio sono accomunati dalla ricerca di una stessa “natura”: interna, non esterna. I loro imitatori (antichi o moderni, non cambia) si fermano ammaliati dal virtuosismo delle superfici, formalizzano le invenzioni, fanno delle persone dipinte dai due maestri dei personaggi e delle maschere. Li riducono a un protocollo. Non capiscono che entrambi non hanno cercato di dipingere la realtà bensì la verità. La cercava anche Francis Bacon, così diverso e così vicino, l’artista attraverso cui Puglisi sembra carotare secoli di storia dell’arte.
È un equivoco in cui Puglisi non cade. Possiamo chiamarla “interiorità psichica”, “natura interiore”, ma più semplicemente è la “verità”: il suo riconoscimento, la sua agnizione è il meccanismo sconvolgente che libera l’arte da ogni decorativismo narrativo e la fa entrare nel campo del sacro autentico in quanto destabilizzante. È risonanza empatica, un luogo di incontro dove non si “rende visibile l’invisibile”, semmai si riconosce ciò che visibile è già.
Puglisi arriva al riconoscimento per una consumazione della forma. «Conoscersi – scrive Paul Claudel nell’Art poétique – è farsi co-nascere, proporsi come mezzo di co-nascenza, è fare nascere da sé, con sé, tutti gli oggetti di cui ha conoscenza. È farsi il loro segno comune, l’immagine transeunte del momento in cui possono sopportare tra loro questo legame. A ogni momento, è incaricato di fare la somma di ciò che non è, di compierlo consumandolo». Claudel recupera qui un significato desueto di consommer (ma impiegato ad esempio da san Bernardo), ben diverso da consumer, dotato invece della sola accezione negativa di “consunzione”. Il termine deriva infatti dal latino cum-summa, “fare la somma”, ossia “compiere”, “portare a compimento”, “completare”. “Consummatum est” pronuncia Cristo sulla croce. Consumare, secondo Émile Littré, il lessicografo ottocentesco autore del Dictionnaire de la langue française, indica una “distruzione utile”, un’azione da parte di cose che ne assorbono altre, da cui, il “consumare” nell’accezione di assumere e digerire, aristotelicamente di sommare a sé elementi esterni.. Consumare per comprendere, consumare per assimilare. La natura reliquiale fa sì che queste immagini fondano in sé genesi (quei semi nel buio sono il motore dell’immagine primigenia e della presente) e apocalisse: e non perché siano i resti di una distruzione, perché distruzione non è, ma segni e testimoni di una rivelazione. Nei quadri di Puglisi il sistema di dettagli che lameggiano sul nero come fosfeni è il residuo di un flash accecante di una visione che persiste, come un fantasma, sulla retina. Ogni dipinto è la memoria dell’esperienza di un’abbagliante cecità.
Apocalisse è il nero. C’è la ricerca di un’estetica apofatica, un rivelare nel tacere, che attraversa molte esperienze della contemporaneità. Per alcuni è la noche oscura di san Giovanni della Croce. Lo sono i neri di Ad Reinhardt, non invece i neri di Mark Rothko, il nichilismo dei quali non è un nada in cui si contempla un todo. L’artista belga Thierry de Cordier ha in corso una serie di opere ispirate proprio al Nada del carmelitano in cui la croce lentamente sprofonda in un buio vibrante, la “tenebra luminosa” dove Dio si cela e insieme rivela. C’è, ancora, il nero della kenosis, quello denso come catrame in cui William Congdon modella i propri crocifissi, o quello delle nubi combuste di Giovanni Manfredini. C’è infine la ricerca della metafisica della luce nel nero di Pierre Soulages. La densità del nero di Puglisi ha senza dubbio la qualità della “tenebra luminosa” ma non è autosufficiente; implica uno svuotamento, eppure non è corpo del vuoto. È un nero che vive necessariamente in una dialettica.
È stato osservato come ci sia una distanza tra il lavoro di Puglisi e il tenebrismo seicentesco, da cui in qualche modo, per sua dichiarazione, muove per fascinazione. Anche tra i pittori barocchi ci sono però dei distinguo. Il fondo neutro o scuro, per quanto sia attestato in precedenza, si diffonde soprattutto sotto la spinta del caravaggismo. È una soluzione che Merisi impiega per portare tutto in primissimo piano ed escludere il contesto, così da concentrarsi solo sull’evento. Molti tra i suoi epigoni sono affascinati dal buio come atmosfera, mentre in Caravaggio questo è condizione per dipingere la ragione fisica e metafisica insieme della luce. Ma in Caravaggio è presente ancora una valenza narrativa, una natura storica del simbolo che in Puglisi non c’è. Il suo nero è campo di manifestazione di un assoluto: molto più affine, ad esempio, al nero del Crocifisso di Velázquez, al nero di Zurbarán. In ultima istanza, in Puglisi il nero appare come un corrispettivo dell’oro nell’icona. Come l’oro vibra, è impenetrabile, ha una profondità prossima all’infinito. È un totale saturante che diventa habitat delle forme, spazio che certifica la natura ontologicamente apocalittica dell’immagine.
Nel nero abitano le forme bianche, corpi liminari. Il riferirsi evidente di Puglisi a Francis Bacon, di nuovo, non è un fatto di mera appropriazione di un linguaggio. C’è invece una continuità ideale di approccio. Vale forse la pena ricordare come anche Bacon si sia continuamente misurato con la storia dell’arte occidentale, da Velázquez a Rembrandt – senza dimenticare il Crocifisso di Cimabue. Anche nell’espressionismo di Bacon si riverbera dunque l’esperienza viva della grande pittura. In una della interviste con David Sylvester, Bacon sottolinea che il solo scopo delle sue “cornici”, come chiamava le griglie spaziali che organizzano i suoi dipinti, era di focalizzare l’attenzione sull’immagine: «Riduco le dimensioni della tele disegnando questi rettangoli che isolano e concentrano l’immagine. Solo per vederla meglio». È dunque soprattutto un problema di relazione tra spazio e corpo, del tentativo di fermare il corpo nella gabbia (rapprenderlo per rappresentarlo) mentre lui la elude sempre. Puglisi non ha gabbie, ma il nero sembra avere la stessa funzione: vedere meglio. Con la pittura al posto del corpo.
Lasciamo da parte per Bacon e per Puglisi una lettura esistenziale, un approccio letterario alla pittura affascinante ma spesso anche fuorviante. Quando Bacon sembra sfasciare in un ghigno il viso di George Dyer o di Isabel Rawsthorne è perché insegue la luce sul volto, registra la resistenza della realtà al tempo e insieme il fallimento di ogni tentativo di arginarlo. Puglisi registra la resistenza del segreto della pittura altrui alla propria, la difficoltà di rapprenderne in un’immagine la chiarezza dell’intuizione intima. La forma, la percezione, la sfida della restituzione: un ritorno ai fondamentali della grande pittura.
© Lorenzo Puglisi 2024
lorenzopuglisi27@yahoo.it
Alessandro Beltrami (2019)
Il Grande sacrificio, o della pittura come rivelazione