Dal momento che si ha nell’anima un punto di eternità, non rimane più nulla da fare se non preservarlo, perché cresca da sé come un seme.
Simone Weil, L’ombra e la grazia
Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è composta di luce e ombra.
Lev Tolstoj, Anna Karenina
Il nero è assoluto. È culla dell’origine e regno delle tenebre, orizzonte della vita e della morte. Il massimo delle possibilità e il nulla, dove inizio e fine coincidono. In questa coincidenza tutto accade. Lorenzo Puglisi è affascinato dal nero. Nel colore impenetrabile che nega visione e forma sono concepite tutte le sue opere. Perché il nero si faccia grembo, fremito di luce, aurora di un nuovo inizio. Inizio che trova le sue radici nell’arte dei grandi maestri, da Leonardo a Caravaggio passando per Bacon. Puglisi accoglie nella sua ricerca la storia dell’arte non attraverso la perfezione della compiutezza formale, ma offrendoci un’immagine aperta, libera di giocare nelle polarità del bianco e del nero, trasparente purezza e oscura opacità, in un dinamismo che non conosce fine. Dove il nero non è solo orizzonte, tanto meno cornice o spazio da riempire: è sostanza stessa dell’opera. Dalle tenebre emerge la presenza, una presenza che da quel nero è sostenuta e in quel nero prende vita: bagliori di luce, scaglie di pittura densa e fremente, come in perpetuo movimento. I miti delle antiche civiltà, il racconto biblico della Genesi, le moderne scoperte scientifiche concordano nel vedere l’origine avvolta nelle tenebre, come il grembo della partoriente custodisce la vita. Il nero invoca la luce.
Puglisi quando crea un’opera ci offre sempre una duplice visione: l’opera in sé e il capolavoro a cui rimanda. La sua arte è relazione. E questo gioco di presenza e assenza è il vero soggetto, in qualche modo inafferrabile, dei suoi lavori. Il suo dipingere essenziale, ridotto a volti e mani, si risolve in tensione vitale di visione e memoria. L’oblio dell’oscurità, il muro invalicabile, e lo svelamento della luce. Un evocare e insieme un custodire che coinvolgono lo sguardo dell’artista e di colui che contempla. In fondo cosa ci portiamo dentro dei capolavori che amiamo? Forse solo dei bagliori di luce… Ecco allora il perché della sua pittura rarefatta, concentrata su ciò che resta di essenziale, come una traccia, meglio come una stella, la cui luce ci giunge da un passato lontano eppure è in grado di indicarci la direzione del cammino. Il senso dell’arte è anche la capacità di custodire: fare propria la storia perché la storia possa generare novità. E il linguaggio di Puglisi fondato sull’analogia vale per l’arte e vale per la vita. Osserva il filosofo Douglas Hofstadter: «L’analogia è la macchina che ci permette di usare il nostro passato per orientarci nel presente. Attraverso milioni di analogie lungo tutto il corso delle nostre vite, costruiamo migliaia di categorie robuste e flessibili; attraverso veloci analogie fatte in frazioni di secondo recuperiamo le categorie appropriate, basandoci su indizi impercettibili che rivelano quello che conta e quello che non conta in una situazione. Così sopravviviamo nel mondo, così comprendiamo il mondo, e così assaporiamo il mondo».
L’artista non ci offre una forma definitiva ma il generarsi della forma, che è poi il senso di questo contemplare il passato: l’opera non è morta, l’opera è viva, è feconda e il suo splendore attraversa i secoli e continua a illuminare gli uomini e il tempo. Uno splendore che si fa abbagliante in un’icona come l’Ultima Cena di Leonardo. A lei Puglisi ha voluto dedicare Il Grande Sacrificio, l’opera più imponente da lui realizzata. Scrive il poeta Davide Rondoni: «Il Grande Sacrificio nasce come doppia sfida. Perché dialoga con un capolavoro, e soprattutto perché da lì muove, sfidando ogni oscurità possibile – quella della vanità del sacrificio, come quella della vanità del tutto, compresa l’arte intera – per far emergere poco più di un segno, poco meno di un disegno o rilievo. Insomma, quasi balbettando da un nuovo sempre più estremo inizio».
Gli apostoli del maestro del Cenacolo sono ritratti di uomini veri, colti in un vortice di emozioni e pensieri per l’annuncio inaspettato del tradimento, che si accompagna al miracolo più grande, l’offerta d’amore e di vita di Cristo nella consacrazione del pane e del vino. Nella visione aurorale delle tredici figure, Puglisi ci restituisce volti e mani di luce: trasfigurati formano uno spartito ideale o forse una costellazione. I volti del Grande Sacrificio sono l’ultima tappa del lungo percorso che è all’origine dell’arte di Puglisi: tutto comincia con il ciclo dei ritratti. I ritratti non sono mai colti nella fissità dell’istante. Non ci sono contorni su cui soffermarsi, occhi su cui concentrare lo sguardo, un’espressione che escluda le altre. I volti plasmati nella luce, che è movimento, esprimono il nostro essere in divenire e insieme l’interiorità come bagliore, che è poi l’intimo di noi stessi, la lievità e la potenza del respiro. L’arte è riconoscersi.
Dice Puglisi: «Nel Cenacolo il movimento delle figure degli apostoli e la mimica dei loro volti manifesta il turbinio interiore che l’essere umano costantemente vive, in forte contrasto con la figura centrale di Gesù. La sua delicata forza e la sua tranquillità spiccano come un’apparizione nuova: una triangolazione vibrante tra le mani – una rivolta verso il basso, l’altra verso l’alto – e il volto consapevole, triangolazione che forma una figura solida, saldamente poggiata alla Terra e contemporaneamente in contatto con il Cielo. Dalla visione di questa immagine così forte, densa di un mistero che mi è solo dato di intuire, è scaturito il reiterato tentativo di raffigurare Il Grande Sacrificio solo con le parti anatomiche in cui più intensamente si manifesta la vita: le mani e i volti, interamente immersi nell’oscurità dell’inconoscibile. Il grande Sacrificio, che è stato compiuto da Cristo nell’offerta cosciente della sua vita, è il grande sacrificio proposto all’uomo, perché possa farlo proprio, anche solo per qualche istante. Questo è un lavoro che porto avanti da quasi cinque anni perché il risultato non è mai adeguato né soddisfacente».
Un “reiterato tentativo” che abbraccia altri grandi capolavori dove l’evento sacro è soggetto e manifestazione: la Natività, Matteo e l’angelo, La Misericordia nascono dalla contemplazione di Caravaggio; la Crocifissione guarda sia a Velázquez che a Rubens, Nell’orto degli ulivi ha la sua sorgente in una piccola opera di Goya. E la bellezza assoluta delle opere da cui è “sedotto”, come ama dire, ci viene restituita come radiografia di luce. Racconta Puglisi: «Quando entrai nella chiesa del Pio Monte a Napoli, e vidi il Caravaggio delle Sette opere di Misericordia, l’impressione istantanea è stata quella di una linea: c’era una sorta di S di luce – delineata tra la testa dell’angelo, la sua mano, la testa dell’uomo a terra, il piede – che è poi quello che ho raffigurato nell’oscurità. Quando guardiamo un’opera nel suo insieme non vediamo le singole immagini, non cogliamo tutti i dettagli: è impossibile per l’occhio e il cervello umano. Ecco perché cerco uno sguardo che mi auguro colga l’essenziale della rappresentazione, come una sintesi, una concentrazione di energia visuale». Questa immagine percepita si sedimenta nel tempo per poi riaffiorare nell’atto della pittura: «È l’azione per me il vero momento significativo: un tempo di silenzio e solitudine in cui percepisco una sorta di distanza tra l’io e l’atto del dipingere, e in quest’azione libera da emozioni, delicata e decisa insieme, la pittura accade e una scintilla di luce, una micro particella di vita, viene catturata da quella straordinaria possibilità che è la pittura ad olio».
La visione attraverso la memoria, la pittura come evento: così nascono queste mappe e partiture. Lo spirito libera e insieme concentra: il volto, il nocciolo dell’essere, il nucleo della vita. Non c’è allora alcuna volontà di scarnificare o di smembrare il soggetto, quanto piuttosto il desiderio mai appagato di andare nel profondo dell’opera contemplata, quasi a dissodare i semi che l’hanno generata. Questi semi originari sono luce perché espressione di una bellezza inesauribile che emerge dagli abissi della grande storia dell’arte e chiede di incarnarsi nuovamente, di generare nuovamente. Perché questo accada bisogna saper guardare nel profondo, ed è necessaria un’immersione totale nell’opera. Come l’umile pescatore di perle, Puglisi sa trattenere a lungo il respiro, sa cogliere i frammenti di luce nelle acque degli abissi, si immerge dove nessuno ad oggi aveva osato, dove tutto è silenzio. La bellezza autentica si accompagna al silenzio. Non basta vedere, per coglierla bisogna ascoltare: solo così l’essenziale si rivela e può essere percepito dal bambino e dal mistico, dall’artista e dal poeta. L’arte è un’avventura nelle profondità dell’essere. Avventura rischiosa, perché non c’è avventura senza rischio. Il rischio di perdersi, il rischio di ritrovarsi, il rischio di abbandonarsi al totalmente Altro.
Il lavoro di Puglisi prima che ricerca è visione, contemplazione, mistero (luce, certo, ma sempre in un orizzonte di tenebra), silenzio: forse è questa la ragione della predilezione per le opere a soggetto religioso, che ben si declina nell’assoluto del bianco e del nero, rivelazione e mistero.
Il rapporto arte e sacro, come rileva Stanislas Fumet, è all’origine dell’arte stessa, al di là di qualunque soggetto: «Chi dice che l’arte imita la natura non la conosce. Imita la creazione, l’atto di creare, riproduce il movimento del Creatore per fare come lui. Essa cerca di assomigliare al Verbo». Il dono di poter creare fa dell’arte un’imitazione non del creato ma del Creatore, ed è l’impronta più vera del nostro essere.
In Puglisi il soggetto è la luce stessa. Una luce raccolta e plasmata nelle sue straordinarie spatolate. Una luce lunare: riflessa, donata e accolta oltre il buio, oltre il tempo, oltre l’opera che seduce e ispira. Una luce concentrata nei punti che per Puglisi palpitano di vita: il volto, le mani, più raramente i piedi. Null’altro. In una sorta di entropia della storia dell’arte.
L’essenzialità dell’opera è anche essenzialità di colori: il fondo scuro è una miscela variabile di nero, bruno Van Dyck, terre bruciate, talvolta rosso o blu, e viene steso per successive velature; nel bianco c’è sempre del rosso. In alcune parti anatomiche può apparire una traccia del supporto sottostante, il giallo della tavola di pioppo o il bianco della tela o della carta. Tutto è concentrato, tutto punta a ciò che è originario e si gioca nella categoria del necessario. È la grande lezione di Vasilij Kandinskij: «Tutti i mezzi sono sacri se sono intimamente necessari. Tutti i mezzi sono sbagliati se non sono intimamente necessari».
Puglisi rende sempre manifesto, con gratitudine, il suo “debito” di memoria. Anzi: è proprio la relazione originaria con il capolavoro – che continua a indagare – l’anima del suo lavoro creativo: «In questo abbraccio con la grande arte del passato la mia vita ha un respiro totalmente diverso». Questa sua ricerca è decisamente controcorrente: tanti contemporanei azzerano la storia partendo dall’errata convinzione che il nuovo possa nascere solo dal nulla, condizione imprescindibile per dare esclusiva espressione al solo mondo interiore dell’artista. L’arte si risolve allora tra gli estremi del “grido” e del “gioco”, della contestazione e dell’evasione. Una scelta che porta spesso ad abbracciare il nonsenso e l’illogicità e trasforma la libertà in arbitrio. Giocando con la provocazione e con l’ironia, tra l’urlo della disperazione e della violenza e il riso del giullare e del folle, si vuole mostrare che ormai non c’è più nulla che valga perché non c’è più nulla da contemplare. Così la povertà o l’inaccessibilità dei lavori nascondono una desolante incapacità di “fare” e di dare forma e colore a un’idea e a un’emozione. Ne risultano opere che negano la contemplazione ma necessitano della comunicazione: hanno bisogno del critico di supporto o di essere accompagnate da una documentazione, video o fotografica, che espliciti il processo “creativo” che le ha originate e dia sostegno a opere-non opere.
Dice Puglisi: «Tutto ciò che è solo un’idea, tutto ciò che necessita di spiegazioni, tutto ciò che può essere facilmente rifatto da chiunque, per me semplicemente non ha senso, non ha valore, è qualcosa in cui non credo. La pittura non è un gioco».
In Puglisi la tensione creativa, che dà fondamento alla libertà espressiva, nasce dalla capacità di legare poli opposti: materia e spirito, tradizione e contemporaneità (nella coscienza che l’arte non è mai solo per il presente), ispirazione e mestiere. Solo quando i due poli s’incontrano allora si determina la vera opera d’arte, il capolavoro che sfida il tempo. Fino a quella congiunzione di visibile e invisibile di cui parlava Paul Klee: «L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è». Il rapporto con la grande arte del passato è un rapporto d’amore: «Le opere da cui nascono i miei lavori sono le opere che mi hanno sedotto». La vera conoscenza genera amore. Puglisi è innamorato della bellezza. Nel 2002 l’allora cardinale Joseph Ratzinger scriveva: «La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo». E ancora: «La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà». Nel linguaggio della bellezza la verità si mostra come splendore (come ci insegna san Tommaso), uno squarcio sull’aldilà che genera stupore, gratitudine, gioia… Sì, Puglisi è stato ferito dalla bellezza: le sue opere sembrano stigmate di capolavori.
Lucio Fontana proponeva tagli e buchi come aperture sull’Infinito, Puglisi concentra l’Infinito nei suoi bagliori di luce, nei suoi volti che sembrano stelle. Nella sua poetica le “macchie” bianche, e più raramente le linee, sono aperture inattese, un invito ad andare oltre in questi suoi universi siderali. L’oscurità guida lo sguardo verso la luce: l’essenziale si offre in tutta la sua profondità, liberamente, svincolato da qualsiasi restrizione e voluttà della forma.
Le opere di Puglisi sono la manifestazione visiva dell’a-letheia, la verità intesa dai greci come “non nascondimento”, “disvelamento”, grazie a uno sguardo che non si ferma alla superficie delle cose, al loro puro e fragile apparire, ma aspira a coglierne l’essenziale, quella luminosità che sorprendentemente appare a chi contempla. È la forza della visione di cui parla Wim Wenders: «Trovo straordinario che l’immagine, diversamente dal pensiero, non imponga alcuna opinione alle cose. In ogni operazione del pensiero è sempre implicito anche un giudizio sugli oggetti, sugli uomini, su una città o su un paesaggio. Il vedere invece trascende dalle opinioni: guardando una persona, un oggetto o il mondo noi sviluppiamo un rapporto autentico, un’attitudine sganciata da qualsiasi giudizio, in fondo percepiamo a livello puro. L’atto del vedere è percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare con la verità, molto più del pensiero nel quale invece ci smarriamo più facilmente allontanandoci dal reale. Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne le distanze».
Note:
1 Douglas Richard Hofstadter e Emmanuel Sander, Superfici ed essenze. L’analogia come cuore pulsante del pensiero, Torino, Codice Edizioni, 2015.
2 Colloquio tra Davide Rondoni e Giovanni Gazzaneo, Milano, 20 febbraio 2019.
3 Colloquio tra Lorenzo Puglisi e Giovanni Gazzaneo, Bologna, 17 gennaio 2019.
4 Ibid.
5 Ibid.
6 Stanislas Fumet, Processo all’arte, a cura di Cecilia De Carli, Milano, Jaca Book, 2003.
7 Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, a cura di Elena Pontiggia, Milano, SE, 2005.
8 Colloquio tra Lorenzo Puglisi e Giovanni Gazzaneo, cit.
9 Ibid.
10 Paul Klee, Confessione creatrice e altri scritti, Milano, Abscondita, 2016.
11 Colloquio tra Lorenzo Puglisi e Giovanni Gazzaneo, cit.
12 Joseph Ratzinger, Messaggio al XXIII Meeting per l’amicizia fra i popoli, Rimini, 21 agosto 2002.
13 Ibid.
14 Wim Wenders, L’atto di vedere, Milano, Ubulibri, 1992.
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Giovanni Gazzaneo (2019)
Lorenzo Puglisi. Neri orizzonti e bagliori di infinito