© Lorenzo Puglisi 2024
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Ci sono sostanzialmente due modi per guardare le opere di Lorenzo Puglisi: uno ispirato alla nostalgia, l’altro alla continuità. Il primo è sbagliato, il secondo giusto.
Il fatto che il nostro artista si ispiri a temi classici, e soprattutto a composizioni classiche (non sono la stessa cosa, si badi...), ha il grande merito di riconciliare quei (pochi) irriducibili che pensano che l’arte contemporanea sia una grande truffa – come la definiva provocatoriamente Salvador Dalí – con gli artisti contemporanei, come a dire che qualcuno di loro sa riconoscere il primato della classicità e tenta di avvicinarvisi con linguaggi moderni e aggiornati. Anche questo atteggiamento, che è una derivazione dell’attitudine nostalgica di cui si parlava sopra, all’interno di un grande equivoco interpretativo e di un pregiudizio duro a morire, mostra qualche sprazzo di verità. Ma procediamo con ordine.
La nostalgia per qualcosa riguarda uno stato d’animo che ci coinvolge, nella misura in cui non sentiamo più come desiderabile il presente o il futuro, e costruiamo un’immagine del pas- sato più luminosa e appetibile, anche se non corrispondente al vero. La generica nostalgia del passato, infatti, tende a cancellare ogni elemento negativo, e a fare del “bel tempo antico” un luogo di ordine, di tranquillità, di felicità. Ciò avviene anche se – e forse in misura maggiore – non abbiamo vissuto quel momento per cui proviamo nostalgia (la fortunata serie televisiva degli anni ottanta Happy Days, basata su un gruppo di giovani degli anni cinquanta, era seguita da chi non aveva affatto vissuto quel momento, e anche la citazione nostalgica degli anni settanta da parte di molti giovani artisti d’oggi, al massimo quarantenni, si basa sul desiderio di ritrovare sensazioni e temi forti, quali erano quelli della contestazione politica, oggi scomparsi), e in quel caso si tratta di una sorta di “proiezione” mascherata da nostalgia, anche se, a ben vedere, la nostalgia è sostanzialmente sempre una proiezione. Per l’arte le cose si complicano un po’ per- ché la nostalgia totalizzante di un’arte antica – per intenderci precedente le avanguardie storiche – non significa soltanto vagheggiare una rappresentazione del mondo migliore, ma è un netto rifiuto della contemporaneità, e soprattutto considera possibile il ritorno di quei linguaggi e la riaffermazione della “vera” arte. Un ritorno che nessun altro tipo di nostalgia potrebbe prevedere, non certo in letteratura, un poco in musica, per niente in architettura. L’opera di Puglisi, tuttavia, sembrerebbe poter dar man forte a questo atteggiamento.
L’approccio più facile all’opera di Puglisi è infatti quello dell’identificazione del modello cui si ispira: riconoscere l’opera pittorica del passato da cui prende ispirazione di solito è il primo passo, ma spesso è anche l’ultimo e l’unico. Si confrontano gli elementi simili, e la ricomposizione mentale dell’originale e del derivato è sufficiente alla nostra tranquillità visiva, come se si trattasse di una sorta di indovinello, che una volta risolto non può più essere riproposto, perché già co- nosciamo la risposta. Al massimo lo si propone agli amici che ancora non sanno, per suscitare quell’attimo di stupore e di sorpresa per poi passare ad altro. Ma in fondo a questo sentimento, anche se in molti casi è inconsapevole (perché troppo elaborato), sta l’idea che l’arte contemporanea sia una degenerazione dell’arte vera, una specie di decadimento senile, posizione con cui Giorgio Vasari si sarebbe probabilmente trovato d’accordo. A corollario di questo, si trova la questione della tecnica, anzi dell’abilità tecnica, che pensavamo di aver definitivamente supe- rato, e che invece ritorna sull’onda della globalizzazione, ritemprando coloro che di fronte a un “taglio” di Lucio Fontana esclamano convinti “questo lo so fare anch’io!”. Sembra impossibile, ma molta della resistenza al linguaggio contemporaneo dell’arte è tuttora ancorata a una questione di virtuosismo esecutivo.
A questo punto, Puglisi si ritroverebbe ad essere definito un “seguace” non tanto di un sin- golo maestro, ma di tutti gli “antichi maestri” della tradizione pittorica, e contemporaneamente diventerebbe un portavoce di rilievo di quei contestatori dei nuovi linguaggi artistici e dello spirito d’avanguardia che pervade il nostro tempo: un esponente (legittimo, s’intende) della “reazione” o della conservazione di tradizioni pittoriche che vivono stentatamente sottotraccia ormai da un secolo e mezzo, ma che hanno numerosi e convinti sostenitori silenziosi tra il pubblico dell’arte. Puglisi, dunque, come paladino di una posizione ideologica forte, rappresentante di concetti al contempo conservatori e antagonisti. Questa posizione di contrapposizione assoluta, tuttavia, acceca lo sguardo e privilegia la mente: si potrebbe essere ciechi e difendere questa opinione con argomenti validi, anche se alieni dall’opera vera e propria, perché in questo caso è sufficiente essere in trincea per stabilire un’appartenenza, per schierarsi. Ma Puglisi non è certo questo, a conoscerne la limpida attenzione con cui vive il proprio essere artista, e anche l’assoluta distanza che lo separa da ogni presa di posizione ideologica.
Di più, a proposito della nostalgia che farebbe da basso continuo alla visione, è bene verifi- care se si tratti della nostalgia di chi guarda o di chi fa. Si tratta di due stati d’animo decisamente differenti: la nostalgia in chi guarda potrebbe infatti essere volutamente indotta dall’artista (effetto Happy Days...) con un’operazione intellettuale sostenuta dalla tecnica, per un’intenzione studiata volta a ottenere un apprezzamento sentimentale da parte di un pubblico ben identificato. Ope- razione studiata freddamente “a tavolino”. Diversa cosa sarebbe invece che l’artista provasse nostalgia di un certo tipo d’arte, la esprimesse nelle sue opere sino a raggiungere l’empatia col pubblico, in una sorta di comune sentire che va dal rimpianto per il passato al tentativo di ripro- porlo con stilemi aggiornati. Atteggiamento sicuramente più “vero” del primo dal punto di vista umano, ma non necessariamente da quello linguistico: si possono ottenere risultati di parteci- pazione emotiva senza essere particolarmente coinvolti emotivamente – si pensi, ad esempio, alle varie scuole di recitazione teatrale dove si afferma che non è necessario aver pianto per far piangere –, a patto di conoscere i meccanismi retorici per innescare il pianto o il riso, presi in questo caso a paradigma di tutta la gamma dei sentimenti possibili. Ma soprattutto, ancora, è questa la condizione di Puglisi?
Qualcuno potrebbe dire che provare nostalgia per un’epoca o uno stile, cercando di riprodurli aggiornandoli, non è molto lontano dall’idea di continuità stilistica, che invece ab- biamo definito come opposti all’inizio di questo scritto, e certamente l’ammirazione per la grande pittura non è estranea alle motivazioni dell’essere artista di Puglisi, ma, ancora una volta, bisogna distinguere tra ammirazione e nostalgia. Quasi tutti gli artisti contemporanei provano ammirazione per i grandi maestri, quasi nessuno prova nostalgia per loro, ed è com- prensibile perché la nostalgia è un’attitudine poco produttiva e in fondo solipsistica (si pensi alla differenza tra Leslie Howard/Ashley Wilkes e Clark Gable/Rhett Butler in Via col vento...) che ha poco a che fare con la necessità di produrre e con l’egotismo tipici degli artisti. Invece, poiché, come diceva Yves Klein, “tutta l’arte è contemporanea”, si può e si deve indagare sul senso di continuità che Puglisi evidentemente ci indica come fulcro della sua ricerca. In questo caso, continuità non significa affatto fingere che nulla sia accaduto nel XX secolo, che non ci siano state le avanguardie, il cinema, Duchamp, la possibilità che ogni oggetto diventi opera, il concettualismo, la smaterializzazione dell’opera eccetera, ma anzi significa verificare che “nonostante” sia accaduto tutto questo certi fili non si siano mai spezzati, e che la pittura – non solo quella antica – abbia ancora il suo spazio nella contemporaneità dopo la furia iconoclasta delle neoavanguardie degli anni sessanta e settanta. Questa con- tinuità è dunque una condizione che guarda al futuro, una volta passato il diluvio, e anche alla globalizzazione culturale del pianeta (c’è qualche assonanza, per esempio nell’uso della gamma dei grigi per dipingere i volti, con il franco-cinese Yan Pei Ming...), e non al passato, come una promessa a venire e non un rifugio, e solo quando anche il suo pubblico smetterà di giocare al ritrovamento, o a esibire la propria erudizione, si potrà cominciare a guardare davvero alle opere di Puglisi.
Allora, perché lui stesso sembra spingere lo sguardo in questa direzione? Sembra, ma non lo fa. Nessun artista si prefigge uno scopo critico nel momento in cui realizza un’opera e difficilmente – con rare eccezioni, Duchamp in testa – considera quest’ultima come un semplice strumento di dimostrazione di una tesi, e Puglisi non è diverso. Certo, per lui l’antico è una fonte ricchissima di spunti, non come imitazione di temi e soggetti, ma piuttosto come “repertorio” di atteggiamenti. Secoli e secoli di pittura, pur nel trascorrere degli stili, hanno per così dire “distillato” un repertorio, appunto, di gesti, di movimenti, di volti, di posizioni che appartengono all’u- mano, prima che all’epoca in cui sono stati dipinti. Così, eliminando dalla composizione quanto c’è di contingente, cioè di legato ai modi di rappresentazione tipici di un periodo, nonché ai suoi oggetti, rimane la rappresentazione di ciò che non cambia, rimane l’essere umano scevro da ogni attributo storico (paradossalmente proprio quello che andiamo a ricercare quando vogliamo sapere quale sia il quadro che ha ispirato questa o quell’opera di Puglisi...). Di qui, come corol- lario, appare evidente che l’ispirazione dell’artista si ritrovi piuttosto tra i grandi maestri che tra i minori: essi stessi per primi, grazie alla loro grandezza, hanno travalicato il loro momento storico, e hanno colto l’umano “senza tempo”, quello che era e che sarebbe stata in futuro l’essenza dell’umanità. Per non essere troppo aulici, hanno servito a Puglisi su un piatto d’argento quel che altrimenti avrebbe dovuto distillare da sé, magari con un lavoro analitico – lodevole per uno storico dell’arte, sostanzialmente inutile per un artista – su una pletora di artisti minori, che a loro volta si erano già ispirati a quei grandi. Meglio andare direttamente alla fonte, allora.
Il resto vien da sé (si fa per dire). E comunque è questa la continuità che supera gli stili e le tendenze, e che interessa Puglisi: se esiste un modo di rappresentazione dell’umano che attraversa il tempo è giusto farne uso e almeno da un punto di vista statistico non si può dire che la pittura di figura non abbia saputo reggere il peso dei secoli. Non si tratta allora di negare valore ad altri modi espressivi da un punto di vista ideologico, ma semplicemente di prendere ciò che è più congeniale a se stessi e al proprio linguaggio (elementi che spesso coincidono, ma non sempre). Tra l’altro, questo atteggiamento post-ideologico di Puglisi – che gli viene naturalmente, senza le macerazioni dell’autocritica e della giustificazione – è perfettamente coerente, e contemporaneo, con quanto avviene nel resto del mondo artistico globalizzato, dove la pittura non deve auto giustificarsi, dove la citazione è un elemento come tanti altri, privo di accezioni negative – si pensi solo al concetto di “meme” nella rete! –, e diffusissimo. Così, Puglisi ha trovato già parte del lavoro fatta, e ha pensato che quelle posizioni dei volti e delle mani – la scelta si riduce a questi elementi, ed è sufficiente – potessero essere anche le nostre, e quelle del futuro, nonostante quel minuscolo residuo di retorica che ogni rappresentazione di qualcosa porta con sé. Quest’ultimo aspetto – una sorta di retorica del ritratto, percepibile an- che in assenza di volti definiti e di gesti identificabili – appartiene in toto al linguaggio della pittura e non può e non deve essere eliminato, perché costituisce il codice della rappresentazione, ciò che accomuna la cosa e la sua immagine in un modo conosciuto o comunque comprensibile. Puglisi, invece di ridurre la portata retorica della rappresentazione, la esalta, eliminando tutto ciò che sta attorno, e così facendo la mette alla prova, ne verifica la forza e la tenuta rispetto alla composizione sulla tela e allo scandaglio dello sguardo. Probabilmente è anche per questo che chi guarda, in fondo, ha paura di uscire in mare aperto, e cerca in tutti i modi di restare ancorato al conosciuto, all’opera che crede ci stia “dietro”, alla certezza dell’antico maestro, piuttosto che chiedersi cosa sia veramente “questa” pittura.
Per fare ciò esistono due approcci diversi, stavolta entrambi validi: l’approccio colto e l’approccio ingenuo. Il primo parte da ciò che si sa, il secondo da ciò che si vede. L’insieme dei due atteggiamenti dovrebbe fornire un risultato equilibrato, non troppo spostato verso la cultura, non troppo propenso al sentimento. La composizione, a un occhio appena allenato, è subito evocativa delle coordinate del ritratto classico, grazie soprattutto alla posizione delle mani, che sono anche l’unico elemento davvero riconoscibile come tale: non riconosceremmo l’impianto tradizionale dell’opera se le mani non fossero riconoscibili. A dir la verità, probabilmente non penseremmo neppure a qualcosa di figurativo se non ci fossero quelle cinque dita. Il volto esiste non per sé, ma per le mani accanto o sotto di sé: solo dopo aver riconosciuto le mani, cerchiamo di “dare un volto al volto”, semplicemente perché capiamo che si tratta veramente di un volto, e non di un gesto, non di materia, non di un segno. In questo si vede anche la sa- pienza esecutiva di Puglisi, che con una gamma molto ristretta di colori – essenzialmente nero, bianco, rosso – riesce a costruire le fattezze di un volto che si va formando, e che potrebbe essere il volto di chiunque, anzi, di ciascuno di noi: basta un colpo di spatola verticale su una stesura orizzontale, ed ecco un naso; un’increspatura materica dall’andamento circolare, ed ecco un occhio; un segno rosso sbavato, una bocca... è solo un attimo, e sembra impossibile, perché una volta fermata la pittura sulla tela, quel che c’è c’è per sempre, ma non è così, per- ché il nostro sguardo è mutevole e basta avvicinarsi perché l’effetto-figura svanisca e subentri il disfacimento, il ritorno della materia e dell’informe: bisogna trovare una distanza “umana” per vedere l’umano, se si è più vicino o più lontano non si riesce a cogliere il tema, anzi a “vederlo”. Questa difficoltà fisica diventa a questo punto metafora di una difficoltà concettuale: non ci sono infiniti punti di vista, ma un punto di vista, e la tolleranza della percezione e della comprensione non è infinita, ma determinata e, anche se questo potrebbe apparire come un colpo al plura- lismo delle interpretazioni, è meglio considerarlo come una precisa richiesta critica non tanto da parte dell’artista, ma addirittura della pittura. E questo è il punto concettuale che più lega Puglisi alla tradizione.
E poi, il nero.
In questo saggio ho promesso a me stesso che avrei ridotto al minimo le citazioni di artisti del passato, e ci sono quasi riuscito. Quasi, perché nel parlare del nero è impossibile non fare una carrellata su ciò che quel nero è stato in certe epoche artistiche, particolarmente amate da Puglisi. E allora bene il “tenebrismo” secentesco, le profondità nere di Rembrandt, Caravaggio e tutti coloro che sono giustamente stati citati a proposito (ricordo Leonardo, alla cui Ultima Cena Puglisi ha dedicato una grande opera, e Tiziano, e Bacon, e Freud...), o tutte le suggestioni che il nero evoca, prima fra tutte la “nigredo” alchemica. Tutto giusto, tutto acuto, tutto adeguato, tutto coerente. Ma questo è anche un “altro” nero, per cui, dati per scontati i precisi e indiscutibili riferimenti alla storia dell’arte, vale la pena di sbarazzarsi di questa sovrastruttura culturale – per quanto possibile – e vestire i panni dell’osservatore ingenuo. Solo così, infatti, si può provare ad andare oltre la pesante cortina di riferimenti storici che rischia di sviare dall’oggetto vero e proprio, che è la pittura di Puglisi, oggi.
La domanda, ingenua, è se le figure “sprofondano” nel nero o invece “emergono” dal nero. È una domanda che andrebbe posta a chi guarda, perché rivelerebbe lo stato d’animo dello spetta- tore, una sua attitudine caratteriale, che non è cosa secondaria quando si parla d’arte, che catar- ticamente fa emergere l’empatia con l’opera: sprofondare nel nero significa cancellare, significa la futura impossibilità di vedere, mentre l’emergere dal nero è un ritrovare, è la promessa di vedere di più. Un atteggiamento pessimista e uno ottimista, per definire grossolanamente la sensazione di inabissamento o di emersione dal nero, che però Puglisi lascia volutamente allo sguardo altrui. Lui, l’artista, usa il nero come strato-limite temporaneo, come ciò che in quell’attimo separa il dentro dal fuori, come il momento dell’apparizione, dell’epifania. È quell’attimo prima che tutto sprofondi nel nero, o che tutto emerga sgocciolante dalla pittura. Non accadrebbe con nessun altro colore, perché il nero prima di essere un colore – anche per il più intellettuale tra gli storici dell’arte – è il buio, e tutti gli abissi sono bui, e anche se la tela è delimitata dal suo perimetro, e la stanza dove giace è piena di luce, quella superficie che possiamo addirittura toccare si apre in una profondità che ci rende ciechi, perché è incommensurabile. Tutto è fissato e fermato sulla tela, ma allo stesso tempo è anche mobilissimo, perché il volto non è definito e il nero in cui è immerso è smisurato, cioè senza misura. Ecco allora che l’insieme del volto indistinto, che può assumere qualunque espressione non avendone se non un vago suggerimento – triste, assorto, pensieroso... –, accanto alla necessità di cui si parlava prima di una distanza percettiva dal qua- dro, che si può perdere spostandosi solo di qualche decina di centimetri rispetto alla superficie, insieme alla sensazione tutta “liquida” della composizione nel nero, pronta a scomparire, apparire, comunque modificarsi, rendono l’opera mobile e mutevole. L’umano – che, ricordiamoci, è il vero soggetto del lavoro di Puglisi – non è più “in posa”.
Marco Meneguzzo (2023)
LorenzoPuglisi. Dare un Volto al Volto