Marco Tonelli (2024)
“O infigurabil luce”: tra pittura e trasfigurazione
© Lorenzo Puglisi 2024
lorenzopuglisi27@yahoo.it
Non astratta né figurativa, la pittura di Lorenzo Puglisi estrae da dipinti di Grandi Maestri del passato i volti e le mani, o meglio il volto e il gesto di opere per lo più di soggetto sacro (Ultima cena, Crocifissione, Annunciazione, Pietà), riducendo tutto ai valori estremi di luce e tenebra. Volti sfigurati, cancellati, senza più identità, intrisi di materia bianca e risplendente su sipari di notte profonda e oscura, priva di stelle. Epifanie rapprese e immerse in un tempo assente, gesti congelati in eterno, senza vita né morte, né inizio o fine, in una dimensione del tempo e dello spazio senza dubbio unica nel panorama della pittura contemporanea italiana.
Puglisi sembra rivivere un momento fondamentale della storia della pittura e delle immagini in generale, quello della trasfigurazione, del passaggio cioè del dipinto dal suo momento di rappresentazione a quello di apparizione. Il miracolo della grande pittura antica (che fa da sfondo tematico alle sue opere) non è tanto nel raccontare storie o nell’imitare il visibile, ma nel ricrearlo con modalità artificiali e tecniche proprie solo al dipingere.
Vedere la grande pittura rinascimentale o barocca ad esempio, come anche comprenderla, non significa soltanto capirne l’iconografia, riconoscere le figure allegoriche o i simboli (appunto le storie), ma partecipare alla verità in pittura, ovvero un gesto artefatto e costruito che trascende ciò che ha dipinto per mostrare il proprio mistero: la materia che diventa luce, la luce che diventa oscurità.
La pittura di Puglisi accoglie dunque in sé il mistero della pittura stessa come fosse il proprio soggetto privilegiato, perché la pittura senza soggetto non è altro che imitazione o decorazione. Anche pittori astratti come Mark Rothko o Barnett Newman (i grandi eroi mistici dell’espressionismo astratto americani) non concepivano un dipinto che non avesse un soggetto, per quanto privo di forme e del tutto monocromo. Che fosse il senso tragico della vita o quello eroico e sublime, sacro e trascendente, poco importa: un dipinto deve possedere un contenuto.
Leonardo, Tiziano, Caravaggio, De Ribera, Goya sono solo alcune delle fonti originarie da cui provengono volti e mani, liquide ed ectoplasmatiche, che emergono dai fondi scuri di Puglisi. Pittura iniziatica per certi versi, perché non a tutti può essere chiaro il riferimento a quei grandi artisti del passato, neanche ai più esperti, tale è la forma di riduzione e trasfigurazione degli originali. Puglisi apre una porta in una sorta di al di là della pittura, sulle sue tele la fisicità del supporto viene inghiottita nell’oscurità, il fondo nero apre a una profondità che nega la visione prospettica per offrirne una antinaturalistica e metafisica. Troppo superficiale nel suo caso parlare di notte della pittura o di assenza di luce se non diamo a queste parole una diversa collocazione, che le rimetta in una prospettiva di lontananza e distanza, perché tale è il suo attuale anacronismo nel far rivivere la pittura antica attraverso gesti e volti trasfigurati.
Per far letteralmente luce su questo ossimoro (può essere attuale un anacronismo?), vorrei provare ad attraversare, seppur in modo assai sintetico, due fonti letterarie difficili, inattuali anch’esse ma proprio per questo dirompenti, capaci di proiettare pensieri e immagini in un altrove che è quello dell’ispirazione poetica stessa nel momento di sua massima anticipazione, visionarietà e mistica proiezione, a partire dai due valori fondamentali della pittura di Puglisi ovvero, per usare termini ora da ridefinire, “oscurità” e “luce”.
Jacopone da Todi (1230 ca. - 1306), prima uomo di legge poi poeta, rappresentante di spicco della comunità dei frati minori cosiddetti “spirituali”, è noto soprattutto per una serie di straordinarie Laudi scritte in una popolare e dialettale lingua italiana con influssi umbri, che hanno delineato una vera e propria teologia negativa. Non perché nichilista ma in quanto via praticabile per arrivare a Dio attraverso la rinuncia e la riduzione ai minimi termini degli stimoli provenienti dalla vita mondana e dal corpo.
Nella poesia di Jacopone ad interessarci è la concezione della luce e della tenebra e di una modalità di elevazione spirituale attraverso la riduzione terrena (potremmo in tal senso definire una pittura negativa quella di Puglisi?). Nella Laude LXIX dedicata a Fede, Speranza e Carità ad esempio, spiegando il processo di elevazione spirituale dell’anima verso Dio, percorso simboleggiato da tre alberi, Jacopone scriveva: “Fui poi elevato nel quarto ramo e il mio intelletto si oscurò… nel sesto ramo perdetti il sonno e vidi il mondo oscurato… fui ammesso nel settimo ramo e mi fu data una doppia luce”. Il cammino verso la luce passa dunque per un sonno tenebroso. Nella Laude LXXXI Jacopone affermava inoltre che “il sole non è vera luce, ma luce di materia”, facendo ancora intendere che esiste una luce diversa da quella fisica, soprannaturale, che in fondo è quella della Grazia divina, come si evince mirabilmente dai seguenti versi della Laude XC: “O luce indescrivibile, chi ti può rappresentare, che volesti abitare nella tenebra oscura? La tua luce non guida chi crede di vederti e di poter definire quello che sei: la notte vedo che è giorno, facoltà non si trova, né sa di te dar prova chi vede quello splendore”. Per finire nella stessa poesia con l’espressione “tu sei luce divina, dalle tenebre purificata”. In questi versi (per comodità trasposti in italiano) leggiamo di diversi tipi di luce e soprattutto di una luce divina purificata dalle tenebre, come se appunto la materia sordida, la notte oscura non potesse essere concepita senza una luce divina e viceversa.
Similmente avviene nel caso di un altro grande mistico tedesco, teologo domenicano ed eretico, Meister Eckhart (1260-1327), praticamente coetaneo di Jacopone, il quale nei cosiddetti Sermoni tedeschi ha affrontato la questione dell’oscurità nel suo rapporto con la luce. Commentando il famoso incipit del vangelo di Giovanni (“In principio….”), Echkart afferma che “il Padre ha generato [il Figlio] eternamente dalla nascosta oscurità dell’eterno nascondimento”, definendo poi questo luogo originario “silenziosa oscurità della nascosta paternità”. Il rapporto tra luce e oscurità in Echkart non è meno drammatico che in Jacopone, seppur apparentemente più sofisticato: “Quel che conosco in Dio è luce; quel che la creatura tocca è notte. Là vera luce, ove non tocca alcuna creatura”. Ma la tenebra possiede tre “gradazioni” potremmo affermare, affinchè l’Uomo possa vedere la vera luce, ovvero un momento di cecità visiva e distacco dalle cose terreno, uno di accecamento spirituale e finalmente uno privo di qualsiasi luce, oscurità assoluta. In conclusione “Dio risplende in una tenebra, in cui l’anima sfugge a ogni luce”. Fondamentale è il risplendere nella tenebra, perché qui la luce non è luce e la tenebra non è tenebra, ma qualcosa di più fondamentale e radicale.
Se nell’oscurità fitta e specchiante dei quadri di Puglisi la luce è assorbita come fosse inghiottita da un buco nero, nei volti e nei gesti trasfigurati il bianco a sua volta non è pure luce, ma luce impastata di tenebre (e forse anche di carne, terra e sangue se osserviamo attentamente la presenza di sferzate di rosso acceso e striature di grigio), proprio quella “luce di materia”, quella luce umana e sporca di cui scriveva Jacopone. La notte di Puglisi sembra a tratti farsi luce e la luce annottarsi ed in questo gioco (laico) di passaggi si avvera il tormento (religioso) dei grandi mistici, riportato alle condizioni di una pittura del nostro tempo, con tutto quel che ne consegue.
Che per far luce sulla pittura di Puglisi si siano utilizzate fonti letterarie apparentemente così fuori tempo e complesse, non significa che la sua opera sia altrettanto complessa e fuori tempo, bensì che può esser letta immediatamente secondo una lontananza storica e spirituale che la rendono indipendente da influenze e stili contemporanei, incidendovi stigmate di attualità negativa (nel senso della riduzione) capace di ribaltare i luoghi comuni della citazione colta, dell’anacronismo pittorico, della nostalgia per l’antico che per molti artisti sono solo stampelle concettuali e didascaliche.
Le figure mancanti di Puglisi sono, stanno, vivono, appaiono, si danno istantaneamente, ma allo stesso modo richiedono che chi le guardi riviva quella stessa polarità dialettica, quel dissidio, quella drammatica via negativa che dalle tenebre porta alla luce, la quale soltanto poeti mistici ed eretici sono stati in grado di rappresentare e dire in epoche passate.
Possiamo finalmente, in conclusione, tornare a vedere gli elementi essenziali della pittura di Puglisi non più con gli occhi né col pensiero storico-critico, ma con un’intuizione simile a quella che ha attivato il processo creativo dell’artista, un’illuminazione che gli ha permesso prima di oscurare le sue fonti, poi di farvi emergere materia luminosa e terrena e infine di unire luce e tenebra in una relazione inedita, non ottica, bensì mentale e spirituale. La pittura di Puglisi trascende la materia per salire l’albero della conoscenza, oscurandosi per vedere la luce metafisica al di sopra di lui, accecandosi per vedere quella eterna dentro di lui. In tal senso le sue opere sono passaggi dimensionali che conducono verso un’altrea realtà, cosa che in fondo è stata l’aspirazione dei Grandi Maestri del passato a cui lui si è instancabilmente rifatto negli ultimi dieci anni.
C’è un’ossessione perturbante che unifica questo ciclo di opere, in cui lacerti di figure sono mossi come fossero attraversati da perturbazioni, onde gravitazionali che arrivano da scontri di buchi neri distanti miliardi di anni. Per tale motivo ai volti Puglisi ha bisogno di affiancare i gesti, perché se i primi si fissano come punti di equilibrio sulla tela (sono l’origine dei pensieri), i secondi creano spostamenti e decentramenti (sono l’origine delle azioni), ma allo stesso tempo agganciano la figura senza corpo all’oscurità profonda. Più vicine a paradossi fisico/spirituali che a veri e propri corpi mancanti, le figure immateriali di Puglisi ci chiedono di essere contemplate e di essere partecipate, di essere sentite nel loro dramma e nella loro mistica esaltazione, nella loro precarietà e nella loro epifania. Sono ombre di luce sul bordo duro della notte, sono metafore di quel che è in fondo la vita che emerge dal nulla per tornarvi nella sua destinazione finale, sono quel monito dell’“essere-per-la-morte” che, anziché indurre in disperazione, ci fa sentire più vivi, ora e qui e sempre proiettati in avanti, riportandoci alla visione di Meister Eichkart: “…e risplendette di fronte ad essi in quella stessa trasfigurazione del corpo che noi avremo nella vita eterna.”
Note:
1 “Nel quarto fui poi levato: ‘l mio entelletto fu scurato… Ne lo sesto perdìo el sonno, tenebroso vidde el monno… Fui nel settimo approbato e doppio lume me fu dato”, Jacopone da Todi. Laudi, a cura di Claudio Peri, Fabrizio Fabbri Editore, Perugia, 2020, p. 237-238
2 “la luce non è luce, lume è corporeato”, Ibidem, p. 274
3 “O infigurabil luce, chi te pò figurare, che volesti abitare la scura tenebrìa? Tuo lume non conduce chi te veder gli pare, potere mesurare de te quello che sia; notte veggio ch’è dìa, vertute non se trova, non sa de te dar prova, chi vede quel splendore”, Ibidem, p. 310
4 “tu se’ lume divino, da tenebre purgato”, Ibidem, p. 316
5 Meister Echkart, Sermoni tedeschi, a cura di Marco Vannini, Adelphi, Milano, 1985, p. 9
6 Ibidem, p. 53
7 Ibidem, p. 214
8 Ibidem, p. 215