Alberto Mazzacchera (2024)

Lorenzo Puglisi.  Tra Vanitas e Sacro

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Il peregrinare nelle grandi città europee e americane, con lavori saltuari per sopravvivere e avere i denari necessari per immergersi nei grandi musei, costituisce il potente e appassionato inizio dell’itinerario artistico di Lorenzo Puglisi (Biella, 1971). Con alle spalle una formazione umanistica liceale, il confronto culturale, la conoscenza dell’arte e del fare arte assurgono a bisogno primario e ineluttabile. Il vagare per il mondo con solo un biglietto di andata, per Puglisi diviene come il Grand tour di un tempo, che portava i rampolli delle future classi dirigenti e i ceti colti d’Europa, in un percorso formativo e iniziatico, a scoprire in particolare l’Italia, che, per il suo essere da millenni deposito storico di incommensurabile spessore e prestigio, detiene una posizione centrale nella civiltà dell’Europa e del mondo da essa influenzato. Così, per Puglisi come per tanti giovani italiani della sua generazione, si succedono lunghe permanenze a Londra (probabilmente la città più amata dall’artista), Parigi, Miami, Los Angeles, Berlino, Amsterdam, Barcellona e Copenaghen. Lo studio dei grandi artisti è serrato e lo scandaglio delle loro opere è accuratissimo. Sprovvisto di una specifica formazione artistica, come peraltro era, ad esempio, anche Piero Manzoni (1933 - 1963), un precorritore geniale dei prolifici filoni milanesi delle avanguardie post-war, Puglisi scruta, analizza ogni dettaglio per carpire i segreti dell’arte dei maestri europei ed italiani. Così l’universo dell’arte che lo circonda prende a popolarsi e strutturarsi con coordinate ben precise.

Tra gli artisti prediletti figura Rembrandt (1606 - 1669), del quale rammenta in particolare il celebre Ritratto di Jan Six, realizzato nel 1654 e ancor oggi conservato nella Six Collectie ad Amsterdam. Rembrandt raffigura l’amico Six, mecenate, scrittore e collezionista di origine francese, in un mo- mento qualsiasi della quotidianità, quello dell’attimo prima di uscire di casa che imponeva di infilarsi i guanti, precauzione essenziale data l’importanza dell’avere mani curate, non solo in funzione estetica ma anche di chiara distinzione di classe, ovviamente rimarcata anche da altri elementi quali la ricchezza degli abiti. Il personaggio, senza alcun dato tratto dal contesto, è reso in maniera magistrale su di un fondo nero sul quale si staglia con i suoi abiti colorati, il cui apice è la sontuosa cappa dal prezioso colore rosso, che, molto prima della produzione dei coloranti della chimica industriale, era particolarmente costoso. Si tratta di una vistosa scelta cromatica che rappre- senta un omaggio incondizionato alla vanità e al modo di essere dell’amico Six, alla sua fiorente attività legata al commercio di tessuti e alla tintura della seta, poiché non appartiene alle scelte preferenziali di Rembrandt, il quale, da buon calvinista, ha di norma una tavolozza molto scarna. 1

Ciò che sicuramente attrae l’attenzione di Puglisi, accanto al potente sfondo nero, è la resa degli abiti, della bottonatura dorata e della profusio- ne di ampi galloni dorati di gusto militare. Rembrandt rende efficacemente il tutto con poche veloci, incisive pennellate impiegando una tecnica che gli impressionisti raccoglieranno e affineranno all’incirca due secoli dopo. È una grande lezione, che Puglisi ha appreso dallo studio diretto e ripetuto
dell’opera e non ha mai dimenticato. Nel 2006, Puglisi inizia a dipingere le sue prime opere di piccole dimensioni: sono dei ritratti. Lui stesso ne spiega i criteri ispiratori: “i soggetti di quei ritratti venivano da foto o dalla memoria: mi interessava che raggiun- gessero una qualità non ‘lineare’, vitale, che potessero esprimere qualcosa che non avevo già visto prima, qualcosa che potesse stupirmi”. La scelta del piccolo formato era di natura meramente economica, infatti, “si trattava di tele piccole, perché piccole erano le possibilità economiche”. Il ritratto è, dunque, volutamente sganciato dalla dimensione psicologica del perso- naggio, come sta a testimoniare il titolo stesso ridotto al termine generico di ritratto, a cui si abbina una codificazione in numeri arabi di esigenza prettamente archivistica. Ciò che interessa a Puglisi è il cranio umano in quanto, per usare le sue parole, non c’è “nulla di più interessante e vitale di una testa umana, che mi tocca nel profondo, che mi ricorda il fatto di esistere, la vita stessa” 2. Solo in un secondo tempo i ritratti di Puglisi si amplieranno fino a includere una o entrambe le mani.

Se i ritratti rappresentano la sua genesi, da questi è bene partire per comprendere la forza e la portata innovatrice della pittura di Puglisi. La testa umana, che nelle cerimonie di consacrazione viene variamente incoronata oppure rasa, simboleggia sia la sede della forza vitale, sia il punto di appari zione animica. Il volto è la cerniera dell’intersoggettività, costituisce il limine o il confine ancipite tra interiorità ed esteriorità, nascondendo i pensieri interiori o esprimendoli, talvolta semplicemente tradendoli.

Ma in Puglisi l’inquadratura fortemente ravvicinata, così totalmente focalizzata sulle teste ritratte senza concessione ad altri elementi corporei, non consente alcuna declinazione dell’espressione del volto, dello stato d’animo. Solo nei successivi ritratti e nella “pittura di scena”, nei quali compaiono una o entrambe le mani, è concesso all’osservatore di tentare di attribuire un’espressione al viso, di “dare un volto al volto” 3, che purtuttavia rimane un’impressione del tutto personale non necessariamente condivisibile da altri. D’altronde, con tutta evidenza, l’intento di Puglisi non è quello di realizzare la testa di una specifica persona, essendogli totalmente estranei sia il realismo sia la resa psicologica. Tale approccio aiuta a comprendere come le figure di Puglisi siano ben distanti da quelle di Francis Bacon (1909 - 1992), l’altro pittore da lui prediletto. In quelle di Bacon, infatti, c’è spesso un corredo di puntuali dettagli che sono volute citazioni dal reale. Indubbiamente il richiamo alle trasfigurazioni di Bacon non può non essere costante, ma, come giustamente annota Angelo Crespi, “Puglisi a suo modo riflettendo sulmaestro fa un passo ulteriore verso una destinazione ancora sconosciuta” 4.

In effetti, oltre alla difficoltà indotta dall’artista di decifrare le espressioni facciali, spesso insormontabile in mancanza delle mani, le figure di Puglisi, superata una certa distanza fisica con il dipinto, mutano nella percezione dell’osservatore. Si perde ogni riferimento morfologico e la pittura, frutto di vigorose, corpose pennellate, si addensa in corposi grumi luminosi attorniati da una sorta di insondabile diaframma di materia ed energia oscura. Tali effetti si accentuano nelle opere che Puglisi realizza su tavola, dove l’oscura profondità, frutto di molteplici stesure di colore, diventa di un nero totale e assoluto, che in molte tavole acquisisce la lucentezza delle impalpabili superfici fluide. Così, a distanza ravvicinata, quella materia fulgida e del tutto informe che si addensa verso l’epidermide esterna, all’occhio emerge nella temporanea immobilità del precario equilibrio pronto a spezzarsi, nel lampo
che precede il divenire forma, o nell’attimo finale che segna l’avviluppamento nel denso, impenetrabile magma delle forze universali. Questa inaffer rabilità delle figure, questa liquidità che le rende costantemente mutevoli e sfuggenti, fanno dire a Marco Meneguzzo che l’umano in Puglisi “non è più ‘in posa’ ” 5.

Tutto ciò azzera ogni tentativo di vedere in Puglisi un possibile esponente della conservazione delle tradizioni pittoriche. Nella sua produzione artistica, in particolare in quella che chiama “pittura di scena”, è evidente il ricorso ai maggiori pittori del passato. Ma tale prassi, per niente affatto di matrice nostalgica, si esaurisce nel semplice attingere a quel formidabile repertorio di gesti, movimenti, volti, e posizioni che nella grande pittura è sommamente rappresentato, quasi si trattasse di un eccezionale distillato a cui, nel corso dei secoli, hanno contribuito innumerevoli generazioni d’arti-sti. Come osserva Meneguzzo “tale atteggiamento post-ideologico di Puglisi – che gli viene naturalmente, senza le macerazioni dell’autocritica e della giustificazione - è perfettamente coerente, e contemporaneo, con quanto avviene nel resto del mondo artistico globalizzato, dove la pittura non deve autogiustificarsi, dove la citazione è un elemento come tanti altri, privo di accezioni negative - si pensi solo al concetto di ‘meme’ nella rete! - e, diffu-sissimo” 6.

A questo proposito ricorrono alla mente alcuni versi che T. S. Eliot scrisse nel 1939, mentre spiravano sempre più forti i venti di guerra: “E ciò che si conquista alfine / Con forza e disciplina, è stato scoperto / Una o due volte o più, da uomini ch’è vano sperare / Di emulare -ma non si tratta di competizione- / Qui c’è solo la lotta per recuperare ciò ch’è stato perduto / E sempre ritrovato e poi perduto: ed ora in condizioni / Meno propizie” 7.
La citazione adogmatica del passato, che Puglisi fa in particolare nella sua “pittura di scena”, è ben lungi dal riproporre linguaggi perduti, i cui ri-sultati si possono ammirare, con occhio scevro da fuorvianti nostalgie, quali espressioni che hanno raggiunto in taluni casi vette eccelse, assurgendo al ruolo di capolavori non di una specifica cultura ma dell’umanità. In Puglisi la continuità con la pittura del passato, accanto all’assor- bente interesse verso la figura umana, è rintracciabile nell’attenzione, quasi ossessiva, per la tecnica pittorica. D’altronde, in opere in cui si è alla ricerca dell’umano senza tempo, limitandosi a pochissimi elementi per rappresentare il corpo (testa, mani, talvolta un piede) la difficoltà di realizzare il dipinto è enorme, e quei pochi organi anatomici selezionati con cura devono possedere un estremo grado di qualità. Puglisi dipinge direttamente sulla tela bianca. La scelta delle componenti del quadro è, spesso, preceduta “da disegni, da quadri più piccoli, che non sono delle prove, ma la ricerca di un’immagine il più intensa possibile”.

Puglisi precisa che durante la lavorazione si sente “interessato soprattutto alla questione della materia che compone le mani, i volti, la sua densità e coloristica” e prosegue dicendo: ”manipolo questa sostanza del colore ad olio con un certo distacco - direi che sono al contempo attore e spettatore - e,
se appare qualcosa, cerco di sospingerlo, di renderlo più intenso utilizzando anche la pittura nera del fondo, una miscela di neri, rossi, bruni, talvolta anche di blu; con l’atmosfera che si crea racchiudo dapprima le figure e poi man mano tutta la tela. Quindi ci vuole l’attesa dell’asciugatura, che può du rare tre, quattro giorni, e che mi permette di riguardare il lavoro con calma e di ristendere il nero in varie stratificazioni, in un processo di asciugatura e stesura che dura alcune settimane: questo mi consente di ottenere densità e tonalità particolari, e allo stesso tempo, inevitabilmente, di modificare il contorno delle figure, talvolta le figure stesse; consente cioè di ‘pitto-scolpire’ le sembianze apparse con una oscurità che invade il campo” 8.
Indubbiamente, come rimarcato da Crespi, “l’analisi sul volto umano,sul disfacimento o sulla riconferma delle fattezze a noi familiari, accomuna tanti giovani pittori contemporanei che pur distanti nella partenza e nelle soluzioni sembrano agire sotto impulsi simili, di una sorta di terzo espressio- nismo che indaga […] sulla condizione umana” 9. Ma credo che in Puglisi vi sia al fondo anche una non dichiarata ricerca che attiene a un suo cammino spirituale che va configurandosi e che ha, per altre vie, dei punti di contatto con quanto va affermando Vito Mancuso: ossia che ”la materia del nostro corpo non è altro che energia condensata, o meglio energia che continuamente si condensa a causa del vortice dei miliardi di relazioni tra gli elementi fondamentali”. E che il “surplus di energia rispetto alla massa della materia è ciò che rende il corpo vivente, animato.

L’anima, a questo primo livello dell’essere, si spiega come il surplus di ener gia rispetto alla configurazione materiale del corpo”. Mancuso distingue tra
l’anima vegetativa, che appartiene alle piante, e un’anima superiore e graduata degli animali, da lui indicata quale anima sensitiva che racchiude in sé
le proprietà di quella vegetativa. Anima che raggiunge il suo massimo grado negli uomini, quale spirito, ovvero la punta dell’anima, che in Mancuso va declinata come “l’emozione dell’intelligenza”. Su questo tema Simone Weil già sottolineava che “la parola greca che viene tradotta con spirito significa letteralmente soffio igneo, soffio unito al fuoco, e indicava nell’Antichità quel- la nozione che la scienza odierna indica con la parola energia” 10.
In tal senso credo che le teste e le figure luminose di Puglisi, entro una magnetica sfera oscura, potrebbero essere in qualche modo anche rappre- sentazioni di entità non percepibili dall’occhio umano, in quanto eccezionali apparizioni dell’energia spirituale dell’essere umano.



Note:

1 M. Pastoureau, D. Simonnet, Il piccolo libro dei colori, Milan, Ponte alle Grazie 2016.

2 M. Meneguzzo, Lorenzo Puglisi, Milan, Skira 2002.

3 Ibid.

4 A. Crespi, Sulla linea del nero, in Lorenzo Puglisi, exhibition catalogue, Villa Cusani Tittoni Traversi, Desio 2014.

5 Meneguzzo, Lorenzo Puglisi, op. cit.

6 Ibid.

7 Eliot, T. S., in The Poems of T. S. Eliot Volume I, Faber & Faber 2015.

8 Meneguzzo, Lorenzo Puglisi, op. cit.

9 Crespi, Sulla linea, op. cit.

10 V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Milan, Raffaello Cortina Editore 2007.



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