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Valerio Dehò (2018)

Luce di tenebra

Lorenzo Puglisi parte dal silenzio del corpo per arrivare alla verità della pittura. Il suo è un viaggio nel cuore delle tenebre, dove appare la luce appare per segnali intermittenti. La sua presenza viene annunciata da lampi, segnali, apparizioni. Corpo e pittura sono due estremi che si intersecano nella percezione del sentire attraverso e oltre i sensi. Il corpo dell’uomo può anche essere letto come un paesaggio, come una geografia umana che rifletta la volta celeste. Il corpo della pittura riflette invece la capacità dell’uomo di andare oltre la realtà, ma non fuori, piuttosto dentro di essa. Non vi è competizione, quanto piuttosto un’opposizione che sa di alterità. La sfera del conoscibile si specchia in quella del sensibile per aprire le porte di una conoscenza diversa perché fondata sulla novità e non sulla ripetizione. Come ha scritto Guido Ceronetti, il corpo tace, è la pittura che deve  parlare senza dire. Il primo ha la sua forza nell’appartenere alla natura, di esserne un elemento costituente. La seconda ha bisogno di esprimersi, deve dimostrare che si tratta di un episodio della costituzione del linguaggio, l’articolazione primitiva di un discorso che forse non comincerà mai e che forma l’attesa della rivelazione che ancora non è perché non appartiene ancora alla forma.

È interessante osservare il modo che ha Puglisi di guardare il mondo. È partito oltre una decina di anni fa con il dare esistenza a un popolo di figure solitarie, profonde, definite dall’essere incerte, tremule. Cerca nei volti quella solitudine degli alti spiriti che è il sogno della pittura figurativa. Gli occhi, come in Francis Bacon, non hanno più la funzione di “finestra dell’anima” che potevano avere nella ritrattistica classica almeno fino al Novecento. Spesso sono occhi che non guardano, ciechi, perché in effetti devono essere guardati. Sono passivi perché sono loro la rivelazione, i volti attorno a loro sono un riverbero, un alone di luminescenza malata. Questa instabilità rivela una relazione con lo spettatore che non capisce quale possa essere il focus dell’immagine. Assorbono lo sguardo e ciò che restituiscono è una modalità di esistenza che si pone tra il corpo e la pittura, in una zona intermedia, una dead zone ancora ignota, che richiede un viaggio per mostrarsi, e il silenzio per apparire.

È anche difficile parlare di realismo a proposito dei suoi lavori, non solo perché la realtà non sempre ha a che fare con la verità, ma soprattutto è la rinuncia definitiva al silenzio della Metafisica. Per questo all’inizio i suoi lavori avevano colori fossili, quasi si trattasse di un magma rappreso e inerte. Eppure non emergeva un valore plastico che fosse fuorviante, che distraesse dal silenzio del corpo. La pelle dell’uomo è una sorta di base epiteliale su cui la pittura dipinge la sua propria pelle. Seconda pelle, quindi, ma non come trucco, come occultamento del reale. Non abbiamo a che fare con un habitus fortificato dai sentimenti e dalle convenzioni. La seconda pelle della pittura è un evidenziatore dei difetti e delle lacune, ma anche della sensualità, della vita, perché è con il corpo che si sperimenta e condivide l’amore, il piacere e la morte.

Lorenzo Puglisi usa il segno del dipingere come uno scavo, il colore sembra qualcosa che in qualche modo debba avere una presenza e per questo l’artista lo adopera con parsimonia, quasi per non farsene tentare e sedurre. Siamo sicuri che la carne abbia bisogno di essere rappresentata, cioè linguisticamente scandita, per avvicinarla a una realtà che non è mai stabile, certa? La carne ha bisogno di questa volontà, non bisogna crederle mai fino in fondo. La Scuola di Londra con Freud e Bacon ci ha saputo raccontare storie di questo tipo. La pittura post-baconiana di Lorenzo Puglisi da un lato è segno, graffia come poche altre, toglie e non aggiunge mai, a dispetto della tecnica e della seconda pelle. Dall’altro è come se catalizzasse i punti di catastrofe. Il corpo va esaminato come una faglia in procinto di rompersi, come una creta che subisce pericolose infrazioni dal suo interno. Un universo di sentimenti e di riflessioni si attualizza in una sorta di iperbole dell’esistere, in una concentrazione di vita dolorosa e insopportabile, quasi che ogni particella elementare di pittura diventasse pesante come un sasso, densa come la pece. Lorenzo Puglisi ha iniziato praticando una forma d’espressione possiamo dire adulta, accettando il confronto con la tradizione. Non solo predilige, tra i generi pittorici, il ritratto, ma soprattutto si confronta proprio con i “generi”, cioè con quelle forme cristallizzate da secoli e da reiterati insegnamenti che hanno apportato criteri di realizzazione.

E poi forse l’aspetto più interessante e misterioso consiste nel vedere in questo processo un punctum, uno stato di equilibrio, dell’essere contemporanei. La storia ha bisogno dell’attualità per avverarsi, del presente per incarnarsi. E di carne si tratta. Come disse molto meglio di me Mario Praz, la carnalità del corpo, la sua sostanza, richiama la morte, il suo cambiamento di stato passa per la perdita della forma. L’instabile è eterno, ciò che dura probabilmente non è umano, mentre la sostanza dei nostri corpi non ha la leggerezza dei sogni ma la certezza della fine. Adrian Ghenie, per esempio, fa qualcosa di simile quando usa la sua pittura violenta e irrazionale per scavare, anche dal punto di vista della tecnica pittorica, i personaggi della storia nella serie Galleria di ritratti. A lui interessa far emergere l’aspetto monstre dei personaggi, come se dipingere fosse un modo per andare dentro la realtà anche quando questa è già diventata passato se non storia, per rivelarne gli ansiti più segreti. Ghenie dipinge anche ambienti, scene, pur rimanendo spesso nelle dimensioni classiche del ritratto. Non lascia soli i suoi personaggi, ma li colloca in una spazialità definita e spesso riconoscibile. Li ambienta e conforta mettendogli attorno oggetti, memorie e corredi. Ma la sua è un’arte che collega spesso l’arte e la società, unendo in un doppio legame i riti e i miti nella migliore tradizione della storia dell’arte. Si comprende come in entrambi i casi ricorrere al termine Espressionismo da un lato può dare un’idea sufficientemente chiara della tipologia linguistica, dall’altro bisogna aggiungere altro. Perché questi giovani artisti nati negli anni settanta non ripetono degli schemi ma li reinventano. Le pennellate, le striature, il colore quasi lanciato non sono epifenomeni di qualcosa di già visto, ma un tipo di approccio a un’arte che ha troppo spesso messo da parte la pittura per accogliere scorciatoie o vie di fuga post-concettuali. In questo caso si tratta di trasferire nell’arte una visione del presente, non certo gli stilemi delle correnti degli inizi del Novecento.

La contemporaneità di Lorenzo Puglisi sta proprio nel non guardare indietro mai. Anche quando, come nella mostra alla Galleria Il Milione del 2016, ha rivisitato una serie di ritratti celebri del passato, li ha riletti alla lente del suo modo di cercare la luce nel buio, i lampi delle tenebre. L’oscuro è per lui condensazione della luce, non sua assenza, la sua tecnica lo porta a segnare il dipinto in una chiave in cui i valori sono invertiti. La sua pittura procede per ispessimenti progressivi e chiarificazioni improvvise che danno ai quadri un chiarore diffuso, un riverbero che non rischiara, ma addensa ancora ulteriormente la materia. Non vi sono fonti o sorgenti, ma brevi apparizioni che fanno scaturire l’enigma degli sguardi verso una direzionalità indefinita e instabile. Il particolare delle mani triangola con il volto in una geometria segreta.

Anche nei quadri recenti, in cui abbandona il ritratto, per prendere ispirazione dalla storia dell’arte, opera un processo di semplificazione visiva. Nasce un teatro visivo, una sorta di messa in scena della pittura classica, e forse per questo Lorenzo Puglisi le chiama Scene. Da un lato “cancella” la grande maggioranza del quadro, annulla la composizione o, meglio, la semplifica riducendola a elementi minimali, a dei veri costituenti ultimi dell’immagine. Matteo e l’Angelo, Nell’Orto degli Ulivi, Il Grande Sacrificio, Narciso, o L’Ultima Cena, quindi Goya, Caravaggio, Correggio o Leonardo da Vinci sono capolavori e artisti che Puglisi prende a prestito per sviluppare la sua idea di pittura. Questa ha bisogno di poco e di molto nello stesso tempo. Di poco perché gli elementi visivi sono creati dai bianchi, dagli accenni di rosso o di giallo che accendono brevemente l’immagine. La sua è un’opera di riduzione, come concentrare lo sguardo in un punto non vuol dire dimenticare il resto, ma determinare una direzione, un’essenzialità. Questa reductio è importante perché recepisce uno dei portati della contemporaneità, che è l’eccesso di memoria, e ne fa una questione di scelta. Non una semplificazione – qui bisogna stare attenti con le parole – ma la capacità di decidere cosa sia pittura e cosa no. Ma anche di molto perché dai capolavori del passato Puglisi non trae ispirazione, compie un’azione in cui si appropria del passato eliminandone gli sprechi, gli eccessi narrativi per come li possiamo leggere oggi. Ne fornisce una rilettura critica e aggiornata al presente. Non è nemmeno un modo di procedere come fece Tino Stefanoni negli anni ottanta con una serie di dipinti intitolata Cleptomania, in cui prelevava da dipinti di artisti del passato a cui si è spesso ispirato, come Beato Angelico, dettagli che sono diventati poi il soggetto principale del dipinto. Lorenzo Puglisi usa le opere del passato come paradigmi da aggiornare, come dei files troppo ingombranti, troppo “pesanti” e che per questo vanno zippati. Ma in questo modo cerea lo spazio per la sua pittura costruendo il fondo nero come luogo di accadimenti.

E il nero sta anche per la memoria. Le tracce della pittura, le sciabolate che appaiono veloci anche se sono frutto di una meditazione quasi zen davanti alla superficie, sono epifanie che emergono dalla lontananza. L’artista sa che un’arte del genere deve tendere inevitabilmente alla perfezione. Deve cercare la radicalità del gesto irripetibile. Mentale e gestuale nella pittura si bilanciano. Non cercano un punto di incontro, ma una stabilità provvisoria. Il fatto che delle opere originarie restino dei gesti, un volto, una mano, tracce, ci deve suggerire come il percorso avviato sia qualcosa di dinamico. In ogni caso la pittura si aggiunge, non nasce per sottrazione. Concettualmente avviene la messa in ombra di elementi dell’opera che l’artista sceglie di non considerare. E dato che di ogni soggetto Puglisi realizza varie versioni, distinte per formato e anche per leggere variazioni di impianto, allora si può comprendere come la sua analisi proceda e sia veramente tale senza fermarsi a una semplice intuizione. Bacon sentiva la necessità di inquadrare i suoi personaggi, di dargli un luogo di accadimento. Le sue creature pittoriche, spesso sconvolte da venti di luce e di calore, o deformate sotto la spinta di malesseri esistenziali, devono avere dei punti di riferimenti e il pittore glieli crea. Le stanze, la sedia di Innocenzo X, quelle che lui stesso ha chiamato Invisible Rooms, o la stessa ripartizione dei suoi trittici quasi fossero pale d’altare, nascono dal bisogno di dare un luogo ai suoi personaggi che spesso sono solitari e hanno bisogno di un conforto che delimiti lo spazio. Ma questi luoghi sono anche prigioni, limiti coercitivi, la pittura (o la vita?) crea gabbie da cui non si riesce più a uscire.

Lorenzo Puglisi ha costruito un’opera al nero dove lo spazio viene fagocitato dal non-colore. L’emergenza dal buio è una fuga, un cercare la luce. E che sia approdato al sacro tramite i capolavori della storia dell’arte sembrava inevitabile. Il “brutto” in Occidente appare attraverso il Cristo sofferente. Il realismo del sangue da costato, la corona di spine, l’esperienza della morte per un Dio non c’era mai stata. Nessuna idealità può trasfigurare la perdita, l’assenza. Karl Rosenkranz intuisce e teorizza nel 1851 che l’Estetica del brutto ispirerà l’arte degli anni a venire. Il bello ideale va bene per le cartoline e per le confezioni di cioccolatini. Nell’arte è entrato il realismo, l’odore dei corpi, la puzza della decomposizione. Nel saggio La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, del 1930, Mario Praz si interessa dei cambiamenti dell’idea stesso di bello in Europa e accenna alla “bellezza intorbidata di morte” che comincia già nel Seicento, si propaga ai preromantici come Novalis e va fino a Baudelaire e a tutto il Novecento.

La pittura non può attardarsi a descrivere i riccioli dei puttini del Correggio o del Bellini, la luce nera del Caravaggio è diventata un magma che ha oscurato il cielo della pittura e ha ricoperto di cenere la storia dell’arte. Puglisi sa che la bellezza è difficile, che il deforme, l’indeterminato sono nomi che stabiliscono un rapporto con l’invisibile. Per questo dipinge a olio, per conservare un legame con una tradizione forte della pittura, e nello stesso tempo ha saputo costruire un proprio universo in cui la memoria è nigredo, fase del processo alchemico in cui la materia deve essere decomposta per tornare al caos originario e rendere a sua volta possibile la creazione. La distruzione precede ogni nascita. Cristo muore per risorgere. “Solve et coagula” era il motto degli alchimisti, e qualcosa del genere dobbiamo pensare davanti a questi quadri. Dante parte dall’Inferno e dai suoi fuochi perennemente accesi per scalare la perfezione delle idee, per colmare la distanza dal Paradiso. E lo stesso Caravaggio aveva più volte accennato alle iniziazioni alchemiche nei suoi dipinti. Il nero non è un colore, o lo è in modo particolare, estremo, come la pittura di Puglisi. Per questo assume un valore simbolico che lo avvicina agli archetipi junghiani. Possiamo dire che il nero sia un colore che ti viene a cercare, che non attende lo sguardo. Un messaggero di Saturno e del suo umore plumbeo che ha accompagnato gran parte della storia dell’arte e dell’uomo.

Condizione di nascita o di rinascita, l’emergere dal buio può diventare una condizione positiva anche se nulla viene completamente definito, come se la luce inondasse di mistero le profondità del dipinto. Forse l’enigma dell’esistere sta nella sua conclusione, nel suo annullamento. I quadri di Lorenzo Puglisi sono tutto questo perché non negano la pittura ma la esaltano. Accennano alla morte ma non l’annunciano. Fingono una rapidità gestuale che non hanno perché vogliono suggerire l’urgenza di vivere, la necessità di scegliere un dettaglio, qualcosa da salvare per portarsi in una dimensione in cui la temporalità non sia soltanto affollata di memoria. Il suo lavoro ci suggerisce una libertà che nasce dal cancellare le prigioni dello spazio e del tempo per costruire un presente che non abbia bisogno di voltarsi indietro come l’Angelus Novus e non si vergogni di costruire, sempre e ogni volta, il proprio passato.